Gli investitori si sono trovati in una situazione di grande incertezza in vista dell’annuncio del 2 aprile, senza indicazioni chiare sulle misure che sarebbero state adottate. Ci si chiedeva se Trump avrebbe introdotto dazi reciproci, dazi universali oppure una tariffa del 25% su tutte le auto importate negli Stati Uniti. Un altro interrogativo riguardava la possibile revoca dell’esenzione dai dazi prevista dall’accordo USMCA per Canada e Messico. E per quanto riguarda i dazi settoriali, non era emersa alcuna informazione concreta.
Motivazioni politiche
Il secondo atto del tango tariffario di Trump, rappresentato da un evento nel Giardino delle Rose della Casa Bianca, ha portato chiarezza? Sì e no. L'evento non ha lasciato dubbi sulla convinzione di Trump che gli Stati Uniti siano stati "truffati" in passato e che le tariffe siano la giusta politica per "rendere l'America di nuovo grande" ricostruendo base manifatturiera del Paese. Tuttavia, l'evento non ha portato la chiarezza tanto attesa dal mercato, poiché la svolta stagflazionistica dell'agenda politica di Trump sembra destinata a rinvigorirsi data l'ampiezza del pacchetto annunciato.
Pacchetto di misure
Il pacchetto tariffario è stato più incisivo e più ampio di quanto il mercato si aspettasse, in quanto sono stati annunciati sia tariffe universali che tariffe reciproche, oltre alla tariffa del 25% su tutte le auto esportate negli Stati Uniti (quest'ultima mossa era ampiamente prevista). Non sono stati annunciati dazi settoriali, ma saranno comunque imminenti. Secondo le stime di Fitch Ratings, il pacchetto annunciato nel Giardino delle Rose implica che l'aliquota tariffaria media effettiva salirà al 22% rispetto al 2,5% dello scorso anno. Questo valore rappresenterebbe il livello più alto mai registrato dall’attuazione dello Smoot-Hawley Tariff Act nel 1930, riportando il tasso medio statunitense ai livelli della fine del XIX secolo.

Fonte: Robeco Refinitiv, as at 02.04.2025
Tariffe auto: Il 3 aprile entrerà in vigore una tariffa del 25% sulle auto che entrano negli Stati Uniti. Si tratta di una misura ampiamente prevista dal consenso degli analisti. Una notizia positiva, tuttavia, è stata l’assenza di un’escalation delle tariffe nei confronti di Messico e Canada, poiché è stata confermata l’esenzione per i Paesi dell’USMCA relativamente ai dazi reciproci.
Tariffe universali: Trump ha annunciato una tariffa universale di base del 10% su tutte le importazioni che entrano negli Stati Uniti, con decorrenza dal 5 aprile. Anche se inferiore rispetto al 20% inizialmente ventilato come posizione massimalista durante la campagna elettorale, è stata forse la misura più inattesa tra quelle comunicate.
Tariffe reciproche: Trump ha presentato una tabella con le tariffe reciproche “gentili” e specifiche per Paese, che sarebbero pari solo alla metà di quanto gli altri Paesi applicano agli Stati Uniti sulle esportazioni. Queste tariffe entreranno in vigore il 9 aprile. L’obiettivo è quello di azzerare il saldo commerciale bilaterale. Sebbene introdotte come misure moderate, nella pratica queste tariffe risultano molto più elevate rispetto alla metà delle tariffe applicate dagli altri Paesi.
La formula utilizzata dalla Casa Bianca per calcolare le tariffe di riferimento si basa sul rapporto tra l'avanzo netto della bilancia commerciale bilaterale di un Paese con gli Stati Uniti e il valore totale delle sue esportazioni verso gli Stati Uniti, come mostrato di seguito:
Secondo la formula adottata dalla Casa Bianca, il rapporto per la Cina è attualmente del 68%. Di conseguenza, la tariffa reciproca è stata fissata al 34%. Sulla base di ciò, la Cina dovrà ora affrontare un'aliquota tariffaria effettiva del 54% - il 34% in aggiunta all'aliquota del 20% già esistente - vicina alla tariffa del 60% per la quale Trump ha fatto campagna elettorale.

Fonte: Casa Bianca
Queste tariffe reciproche estremamente elevate probabilmente origine a complesse trattative e possibili ritorsioni. In un'intervista rilasciata a Bloomberg dopo l’annuncio, il Segretario al Tesoro americano Scott Bessent ha cercato di rassicurare i mercati spiegando che queste aliquote rappresentano un tetto massimo e non aumenteranno, a patto che non vi siano ritorsioni, offrendo così uno spiraglio negoziale. Tuttavia, le possibilità di ritorsione sembrano concrete: l’Unione Europea e la Cina, i due principali partner commerciali degli Stati Uniti, hanno mostrato chiari segnali di voler rispondere. Anche la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha lasciato aperta la porta a negoziati. Giappone e Corea del Sud, invece, hanno suggerito un approccio più diplomatico.
Reazione iniziale del mercato
La reazione iniziale è stata contenuta all’inizio della conferenza nel Giardino delle Rose, ma è cambiata radicalmente quando Trump ha svelato la tabella delle tariffe reciproche. I mercati sono entrati in modalità "risk-off". Diversamente da quanto accaduto durante il primo mandato di Trump, il dollaro si è indebolito e l’euro si è rafforzato. Questo riflette la consapevolezza del mercato sul possibile effetto controproducente dei dazi sull’economia americana. Come già sottolineato da molti economisti, le guerre commerciali tendono a penalizzare in primo luogo chi le avvia.
Dopo l'annuncio delle politiche, anche il mercato dei titoli di Stato ha reagito in modo chiaro. I rendimenti dei Bund tedeschi il 3 aprile sono saliti di circa 30 punti base rispetto alla fine di dicembre, segnalando che l’impatto economico della guerra commerciale sarà particolarmente sentito negli Stati Uniti, anche tenendo conto dei nuovi piani di stimolo fiscale appena varati.
Le curve dei rendimenti si stanno irripidendo in modo significativo in molti mercati sviluppati, come riflesso delle crescenti pressioni inflazionistiche. I mercati del credito si stanno ampliando, ma l’intensità di questo ampliamento sembra meno pronunciato del previsto, dato il ritmo del sell-off dei titoli azionari statunitensi. Gli spread del credito europeo si stanno allargando di pari passo con l'indebolimento delle borse UE.
È probabile che si verifichi una contrazione significativa dei volumi del commercio globale. Le nostre analisi mostrano una correlazione tra i volumi globali e la performance degli asset multi-settoriali: i Treasury americani, l’oro e il credito globale sono stati in grado di offrire una copertura contro la contrazione dei volumi commerciali. Tuttavia, l’indebolimento recente del dollaro va contro questo storico comportamento, come mostra il grafico accanto.
Historical beta of 1Y returns to 1Y change in global trade volume

Sensibilità beta dei rendimenti cross-asset alle variazioni dei volumi del commercio globale. Fonte: LSEG Datastream, Robeco LSEG Datastream, Robeco
Implicazioni economiche: cosa monitorare
Mentre in passato un dollaro forte attenuava l’effetto inflazionistico dei dazi, un ulteriore indebolimento della valuta aggraverebbe invece la spinta verso l’alto dell’inflazione una volta che le tariffe entreranno in vigore. Resta da vedere se le imprese cinesi ed europee decideranno di ridurre i propri margini per mantenere la competitività sul mercato statunitense. In caso di rafforzamento dell’euro, le esportazioni verso gli USA potrebbero beneficiare di una domanda interna più elastica.
Prezzi d’importazione più alti: come reagiranno le imprese
In assenza di misure compensative, è probabile che i prezzi delle importazioni statunitensi continuino ad aumentare. Ciò costringe le aziende statunitensi a scegliere tra due opzioni: assorbire lo shock dei costi più alti sui beni in entrata accettando una riduzione dei margini di profitto, oppure trasferire i maggiori costi ai consumatori finali per proteggere i margini. Nella misura in cui i costi più elevati vengono trasferiti ai consumatori, l'inflazione misurata dal CPI statunitense aumenterà. Studi mostrano che il tasso di pass-through durante il primo mandato di Trump è stato vicino al 100%, il che significa che l’intero peso dei dazi è ricaduto sui consumatori.
Se i consumatori dovessero opporsi a tali aumenti – ipotesi del tutto plausibile alla luce dei recenti sondaggi sui consumatori che mostrano una maggiore ansia dei consumatori in un contesto di esaurimento dei risparmi in eccesso - e le imprese riuscissero a trasferire solo parzialmente i costi, è probabile che la compressione dei margini di profitto si traduca in un aumento del rischio che la disoccupazione superi il 4,5% negli Stati Uniti. Mentre le nostre previsioni sugli utili dell’S&P 500 per il 2025 erano già inferiori al consenso (7%), i rischi ora sono orientati verso un ulteriore ribasso.
Gli aggiornamenti sugli utili delle aziende statunitensi saranno un importante indicatore per valutare la loro capacità di trasferire i costi e la disponibilità ad aumentare gli investimenti in conto capitale (capex). I primi segnali emersi da sondaggi condotti tra piccole e medie imprese statunitensi negli ultimi mesi indicano una crescente intenzione di aumentare i prezzi di vendita, accompagnata da una riduzione dei piani di assunzione. Quest’ultima potrebbe essere una strategia di copertura, a indicare la consapevolezza di una minore capacità di trasferire i costi rispetto al 2018/2019, in un contesto di consumatori americani più cauti.
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Un CPI più alto porterà a salari più alti?
Secondo le stime, l’inflazione CPI negli Stati Uniti potrebbe aumentare dell’1-1,5% entro il 2026, se dovesse verificarsi un forte trasferimento dei maggiori prezzi di importazione sui consumatori finali. Dato che il mercato del lavoro statunitense è ancora vicino alla piena occupazione e che le offerte di lavoro rispetto al numero di disoccupati rimangono elevate, potrebbe esserci un certo margine per aumenti salariali nominali o almeno per un sostegno ai salari reali. Questo potrebbe aprire la porta a effetti di secondo livello: una risposta salariale al rialzo causata dallo spostamento dei prezzi dovuto alle tariffe, con conseguenti pressioni inflazionistiche ulteriori.
Tuttavia, il nostro scenario di base prevede solo una risposta salariale moderata, considerando la fase avanzata del ciclo economico, la fine dei programmi di stimolo fiscale, l’esaurimento dei risparmi accumulati e l’erosione del reddito reale disponibile. Un forte impatto negativo è inoltre probabile a causa della bassa immigrazione netta, che normalmente avrebbe sostenuto la crescita della manodopera. Curiosamente, durante l’annuncio alla Casa Bianca, Trump ha segnalato che i migranti saranno accolti purché entrino legalmente negli Stati Uniti.
Un consumatore statunitense più debole
Se i consumatori statunitensi non riusciranno a ottenere un adeguato compenso per l’erosione del loro potere d’acquisto causato dai dazi più alti, è probabile che riducano ulteriormente la domanda. Di fatto, hanno già iniziato a spendere meno rispetto ai livelli precedenti alla recessione causata dal Covid. Potrebbero esserci anche effetti di sostituzione: passare a beni di qualità inferiore o a prodotti essenziali, oppure optare per alternative più economiche. Secondo noi, questi effetti potrebbero non essere sufficienti a compensare il calo di domanda.
Un consumatore USA più debole impatterebbe negativamente sulla crescita, che inizialmente era prevista al 2% annuo nel nostro scenario. Un indebolimento della domanda interna potrebbe ridurre la trasmissione dell’inflazione globale verso gli Stati Uniti, lasciando altri paesi relativamente meno colpiti da queste tariffe.
Un ritorno agli anni '30?
I segnali stagflazionistici si stanno rafforzando nel breve periodo. Tuttavia, l’inflazione potrebbe rivelarsi temporanea, poiché molti percorsi puntano ancora alla disinflazione e a un potenziale ritorno alla recessione. Ci stiamo quindi avvicinando a un ritorno agli anni '30? Dopo l’introduzione dello Smoot-Hawley Tariff Act, gli Stati Uniti (e molti dei loro partner commerciali) sperimentarono una fase di deflazione acuta e una vera e propria depressione economica. Dal nostro punto di vista, è improbabile che ciò accada oggi, dato che la Federal Reserve ha molto più margine (e volontà) per adottare una politica monetaria espansiva rispetto al 1930.
Inoltre, la pandemia Covid ha innescato un cambiamento strutturale verso una politica fiscale più espansiva, in un’epoca già segnata da frequenti shock negativi dell’offerta. La combinazione di una politica monetaria accomodante e di un’espansione fiscale in arrivo, anche in presenza di un rallentamento dell’economia, riduce notevolmente il rischio che la disinflazione si trasformi in deflazione. Anzi, un forte stimolo fiscale potrebbe rappresentare l’inizio di una seconda ondata inflazionistica nei prossimi anni. L’inclinazione della curva dei rendimenti dei Treasury, soprattutto nella parte lunga, riflette proprio questo rischio.
La Fed in trappola
L’annuncio delle nuove tariffe anticipa probabilmente negoziati complessi, destinati a mantenere alta la tensione sui mercati e sulle banche centrali ancora a lungo. Inoltre, l’ampiezza del pacchetto mostra che il mercato potrebbe dover rivedere al ribasso la cosiddetta “Trump put”, o addirittura iniziare a dubitare della sua esistenza. Nella nostra previsione per il 2025 avevamo già ipotizzato un “atterraggio pericoloso” per la Fed, e questo pacchetto, se attuato nella sua forma attuale, non fa che rafforzare quella visione. Il rischio è che si stia passando da una dinamica statunitense resiliente ma attraversata da correnti inflazionistiche, a una vera e propria spirale stagflazionistica.
I rischi per il nostro scenario base di “atterraggio morbido” per l’economia statunitense si stanno rapidamente spostando verso il basso. Il nostro scenario peggiore — il “risveglio da un sogno” — sta acquisendo sempre più peso, man mano che le contraddizioni dell’agenda di Trump diventano evidenti: inflazione più alta, mentre si fa campagna per un’inflazione più bassa. Intanto, le probabilità di una guerra commerciale “occhio per occhio” sembrano ora più alte rispetto a una settimana fa.
In definitiva, la Giornata della Liberazione di Trump non rappresenta certo un’occasione di festa per economisti e mercati. Non ha offerto né la chiarezza né la direzione che gli operatori si aspettavano.